La premessa è la domanda: internet è quel “circolo magico e virtuoso”, quel “percorso infinitamente positivo”, quel “successo economico e culturale” che i suoi sostenitori ci prospettano?
Parte da questa, che considera una “falsa promessa”, dal “campo di distorsione della realtà” l’analisi di Andrew Keen, noto critico dell’internet moderna.
L’assunto di partenza è forte, quell’“Internet NON è la risposta” che dà il titolo all’intero lavoro: più che una risposta, internet è una domanda, ha diviso anziché aggregato, creato nuove disuguaglianze e nuovi monopoli, esaltato narcisismo e individualità.
La creazione di una società in rete è l’esperimento sociale ed economico più importante in atto: per questo, Keen ci porta alla scoperta di quell’architettura che plasmiamo – ma che finisce per plasmarci – partendo dal Battery di San Francisco – con l’edificio che diviene messaggio della distopia della nuova, esclusiva società internettiana – passando per la retorica dell’un-business e l’incredibilmente diseguale distribuzione del potere e del valore economico, che sta costruendo – dietro un’apparenza fatta di trasparenza, apertura e inclusione – un mondo opaco, esclusivo e discriminatorio.
Keen non manca di sottolineare il valore positivo della rete: nelle relazioni, nelle comunicazioni, nelle spinte libertarie dei popoli, nella possibilità – se associata a una visione critica – di far conoscere il mondo, ma evidenzia come la maggioranza di entusiasti – il 76% di statunitensi secondo la citata ricerca 2014 del Pew Research – non considerino sufficientemente il quadro complessivo: quello di una organizzazione fortemente verticistica, una “plutocrazia di nuovi signori e padroni”, dove poche aziende controllano tutto, ricchezza compresa, e che è molto lontano dalla visione utopistica degli inizi, in cui l’interesse delle sicurezza nazionale e del bene collettivo condiviso ne avevano decretato la nascita.
Il passaggio sarebbe avvenuto a metà degli anni novanta, quanto l’internet dai ricercatori diventa l’internet degli uomini d’affari: non una nuova economia – intesa come nuova struttura dell’economia – ma la semplice sostituzione dei vecchi padroni con i nuovi; l’economia dell’“uno percento” contro quella “dell’altro 99 per cento che non ha investito in Uber, non possiede dei Bitcoin e non affitta su Airbnb qualche stanza del proprio castello”.
L’idea di fondo è espressa a pag. 34 e, pur se formulata a proposito di Amazon, può essere estesa all’intera internet: “al di là dell’indiscutibile convenienza, affidabilità e valore, Amazon sta di fatto producendo un effetto negativo e preoccupante sull’intero settore economico”. Un potere monopolista che riduce, drasticamente, quello degli altri attori della filiera, cui comunque garantisce visibilità, riducendo i posti di lavoro in tutti i settori, assolutamente non compensati dalla minima forza lavoro creata della leggerezza delle aziende della net economy.
Molto interessanti i continui rimandi storici, che ci portano dal fratelli Bentham alla Stasi di Mielke, attraverso Prism e la storia della nascita di internet, fino alla Googlenomics e al villaggio illuminato a giorno di Facebook.
C’è tempo anche per affrontare il meme dell’idolatria del fallimento – complice una viaggio a Rochester nella sede di quella che un tempo fu la gloriosa Eastman-Kodak – quello per cui “il tracollo finanziario rappresenta l’emblema del successo”, e che Keen definisce la “economia da casinò” delle start-up.
Libro ricco di spunti, a tratti ridondante, con echi di Neuromante di Gibson, più volte citato, e scenari quasi apocalittici di una realtà in cui l’elemento umano esiste per spendere, in un mondo del lavoro popolato da robot e droni: i nostri dati come unico elemento di valore, quelli che – più o meno inconsapevolmente – barattiamo per servizi gratuiti e performanti, abbracciando, in tal modo, una rete trasparente fatta di uomini di cristallo.
Il feudalesimo digitale è alle porte? Ah, alla fine Keen una risposta la fornisce, ed è una risposta composita.
Ma non vi dirò quale. Leggetelo. E andatelo a sentire a Torino o Milano.
Morena Ragone
@morenaragone