Sarebbe stato un perfetto esempio per la serie “scoperta dell’acqua calda”, il provvedimento del Garante Privacy n. 345 del 4 giugno 2015.
Il principio base è il seguente: il datore di lavoro non può spiare le conversazioni dei propri dipendenti, anche se effettuate a mezzo Skype, dal momento che “il contenuto di comunicazioni di tipo elettronico e/o telematico scambiate dal dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro sono assistite da garanzie di segretezza tutelate anche a livello costituzionale, la cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e il pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali”.
La vicenda da cui origina la pronuncia è estremamente interessante: nelle giornate del 12 e 13 agosto 2014 la Zordan Logistica S.r.l. effettuava una verifica - a detta della ricorrente, occulta, prolungata e sistematica - delle conversazioni di una propria dipendente attraverso il pc concessole in uso, utilizzando poi i dati così raccolti, a distanza di tempo, per suffragare un licenziamento disciplinare. La ricorrente, infatti, utilizzava il software Skype installato sul computer assegnatole in dotazione per lo svolgimento delle proprie mansioni, ma le conversazioni sarebbero state acquisite illegittimamente in quanto l’interessata non sarebbe mai stata informata “in ordine ai mezzi ed alle procedure utilizzate dal datore di lavoro per il controllo del p.c. aziendale”, che, quindi, sarebbe avvenuto in modo occulto.
La ricorrente ha contestato, altresì, che parte delle conversazioni allegate a fondamento del licenziamento sarebbero state in realtà “effettuate (…) successivamente all’uscita dall’azienda direttamente da casa (su un diverso pc) tramite un diverso account Skype, privato, con profilo personale”.
La difesa dell’azienda è, a mio avviso, imbarazzante: assume, infatti, di aver acquisito legittimamente i dati in quanto la dipendente, in ferie anticipate a causa della tensione lavorativa, avrebbe lasciato acceso il proprio computer portatile, con il monitor in funzione, e con l’icona di Skype ancora attiva con una serie di conversazioni in atto; il rappresentante legale della società, “passando alla postazione della ricorrente per verificare a che punto fosse il lavoro svolto dalla stessa e appurare se avesse lasciato eventuali appunti (…) successivamente all’uscita dall’azienda, avrebbe pertanto rilevato tale dimenticanza, prendendo altresì casualmente cognizione del contenuto di conversazioni, lesive della reputazione dell’azienda e dello stesso rappresentante legale, intrattenute dalla medesima tramite Skype con corrispondenti stranieri della società”.
Ma c’è di più: evidentemente non soddisfatto della casuale scoperta, l’amministratore della società installava un software per intercettare tutte le conversazioni dell’account incriminato, in modo da “visualizzare in tempo reale le conversazioni effettuate dalla ricorrente, una volta rincasata, sul proprio pc”.
Fatto sta che la ricorrente ha prodotto, a tale riguardo, “tabulati di conversazioni (…) dai quali si evince” come la stessa, una volta rincasata, “avesse utilizzato un diverso profilo, con nome utente “XX.”, anziché YY”.
Ma l’azienda era entrata in possesso anche di tali conversazioni.
Casualmente.
Nonostante l’azienda abbia eccepito che “tale condotta non possa ritenersi in via di principio vietata in quanto l’accesso alla corrispondenza telematica della dipendente sarebbe avvenuta non per verificare la corretta esecuzione della prestazione lavorativa, ma a seguito dell’emersione di elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di una indagine retrospettiva rivelatrice di violazioni gravi tali da giustificare il licenziamento per giusta causa soggettiva”, il Garante ha evidenziato la necessità di rispettare la libertà e dignità dei lavoratori anche nella definizione delle modalità di corretto utilizzo degli strumenti di lavoro,
Nello specifico, ha evidenziato come in materia di protezione dei dati personali sia fondamentale il rispetto de “i principi di correttezza, (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e non eccedenza di cui all’art. 11 comma 1 del Codice”, reso ancora più evidente - in tale ipotesi - dal fatto che “i dati raccolti riguardano comunicazioni telematiche in parte avvenute anche al di fuori dell’ambito lavorativo quando la ricorrente, collocata in ferie, si trovava già presso il proprio domicilio privato”
Tali modalità - sottolinea il Garante - “si pongono in evidente contrasto sia con le “Linee guida del Garante per posta elettronica e Internet”, nonché con la stessa policy aziendale adottata a riguardo dal titolare del trattamento e specificamente approvata negli stessi termini dalla Direzione Territoriale del Lavoro”
Se questa è la situazione vigente l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori nella sua vecchia formulazione - ne abbiamo trattato anche qui - cosa accadrà ora dopo lo stravolgimento operato dal Jobs Act e dai suoi decreti attuativi, che esplicitamente escludono dall’accordo sindacale gli strumenti utilizzati per “rendere la prestazione lavorativa”?
Di certo, mai potrà venir meno il rispetto dei principi costituzionali e il bilanciamento dei contrapposti interessi, ma nella pratica concreta vedremo quale sarà la nuova linea mediana.
Forse il capo lo sa, forse farà finta di nulla, chissà.
In ogni caso, prima di lasciare l’ufficio… controllate di aver fatto log-out.
Non si sa mai.
Morena Ragone
@morenaragone